C’era una volta un re, diranno i miei piccoli lettori…e invece no. C’era una volta un Cavaliere. Ma non un cavaliere medievale, di quelli tutto istinto e passion d’amore, che sfidan draghi e aman fanciulle dai dorati capelli, no, questo era un Cavaliere in doppio petto blu, bassino, con una calvizie assai presente, era il presidente del Consiglio di una penisola a forma di stivale, uno stivale putrido, ammaccato, che conteneva un piede ormai incancrenito. Una mattina il nostro si svegliò all’alba e si guardò allo specchio, una grassa risata lo pervase, era il riso del potere, il riso di chi sa che il mondo è ai suoi piedi. Un risveglio positivo se vogliamo in confronto a quella nottata, che invece non fu affatto serena. Il Cavaliere fece incubi assai inquietanti, sognò di gigantesche falci ed enormi martelli che volevano affettarlo e schiacciarlo, sognò di parrucconi da magistrati tinti di rosso, sognò il Soviet supremo che si accingeva a spedirlo in Siberia ai lavori forzati. Si svegliò sudato, appiccicato, poi quando si rese conto che il sogno era appunto tale, la risata prese il sopravvento, rivelò una realtà che si confaceva più ai suoi dettati. Fece colazione, consultò i suoi amici giornalisti e le sue televisioni, si incipriò il nasino, indossò scarpe col tacco e uscì. Non parlò affatto quel giorno, il sogno – inutile negarlo – lo aveva comunque turbato, chissà cosa significava, perché quel colore rosso acceso, quei simboli che volevan distruggerlo, non riusciva a capire. Tornato a casa il suo cameriere chiese: “Presidente, qualcosa non va? Ha una faccia oggi! Sembra uno spettro! Le si è sciolto anche tutto il cerone che, con le mie manine laboriose (quante cose sanno fare!), le avevo applicato con amore stamane, cosa le accade?”. Il Cavaliere scrutò il suo inserviente ma non disse nulla, in realtà provò a parlare ma le parole non uscivan di bocca, il mutismo s’era impossessato del nostro eroe. Indicò un bloc-notes sulla scrivania, il suo inserviente (che chiameremo Emilio, un nome come tanti) corse a prenderlo assieme a una penna d’oro e porse il tutto al Cavaliere che scrisse: “Dolce Emilio, lo shock che gli incubi di questa notte mi hanno apportato mi negano l’uso della parola, sono disperato, anche se nascondo bene il mio stato d’animo non riesco a capire cosa succede, il mio ruolo istituzionale non può permettermi di restare in questo stato di mutismo perenne”. Una lacrimuccia sgorgò dall’occhio destro di Emilio, si sciolse anche il suo cerone. Il Cavaliere andò a riposare. Passarono dei giorni, il mutismo ancora regnava sovrano. Il tenero Emilio allora decise di mettere in pratica un’idea che la sua sagace mente aveva partorito qualche notte prima, ossia far prendere un bello spavento al padrone. Forse uno spavento, magari durante il sonno, poteva far riacquistare la parola al Cavaliere e annullare quell’afasia terribile. Una notte il Cavaliere dormiva alla grande, l’Emilietto quatto quatto e lesto lesto, con passo felpato e cappello da notte, si diresse verso la stanza del padrone, aprì la porta, si avvicinò al letto dove il Cavaliere dormiva e urlò con tutto il fiato che aveva in gola: “Padrone!!!!”. Il Cavaliere sbarrò gli occhi, si alzò dal letto e urlò: “Bunga! Bunga! Bungaaaaaaaaaaaaa!!!!!!!”. “Il padrone parla! parla! e che parole! che poesia esce dalla sua bocca!” disse il fido Emilio. Tutti vissero felici e contenti. Nei libri di storia questo episodio verrà inserito con il titolo “Miracolo italiano”.
P.S. Una colletta dei potenti del mondo fece sì che, dopo la guarigione, al nostro fu regalato un viaggio, una sorta di periodo di rilassamento in quel di Sharm el Sheik.
Corto
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