giovedì 10 febbraio 2011

A Silvio

Silvio, rimembri ancora
Quel tempo di tua vita imprenditoriale,
quando brillantina splendea
nei capelli tuoi radi e fuggitivi,
e tu, brillante sornione, alle sirene
della finanza sfuggivi?
Sonavan la padana
Arcore, e i paeselli dintorno,
ai tuoi denari canto,
allor che alle televisive opere intento
sedevi, assai contento
di quelle lire che in mente avevi.
Erano i ’70 fumosi: e tu solevi
Così menare il giorno.
Io i codici leggiardi
Talor lasciando e le sudate sentenze,
ove il tempo mio primo e secondo e terzo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i balconi del trentino ostello
porgea gli occhi al suon delle tue cazzate,
e alle stronzate che percorrean la tua diplomazia.
Mirava il ciel sereno,
le vecchierelle e gl’immigrati,
e quindi la stazione da lungi, e quindi il monte.
Divinità australe non dice
Quel’ch’io sentiva in petto.
Che pensieri sozzi,
che ignobili realtà, che destini, o Silvio mio!
Quale allora ti apparia
L’italica penisola e il ricatto!
Quando sovviemmi di cotale realtà,
una tristezza mi preme,
acerba e sconsolata,
e tornami a doler di mia sventura.
O Bettino, o Bettino
Perché non ti prendi ora
Quel che ci lasciasti allor? Perché di tanto
Offendi i fratelli tuoi?
Tu pria che Hammamed inaridisse il volto,
da malcelato morbo combattuto e vinto
perivi, Ali Baba. E non vedevi
la tragedia degli anni miei;
non ti molcevan il core
le dolci tangenti dei tuoi vassalli,
gli sguardi mafiosi e schivi;
né teco i compagni tuoi ai dì ordinari
ragionavan di soldi.
Anche perìa fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Negata fraternità e decenza. Ahi come,
come passato sei, vil compagno
dell’età mia passata, mio ignobile
fardello!
Questa è dunque quell’Italia? Questi i padri,
Gli scranni, i pubblici uffici, le grandi opere, i straordinari
Eventi dove a me ragionar non è concesso?
Questa del bovin popolo la triste sorte?
All’apparir del magistrato
Tu, misero, fuggisti: e con la mano
L’impunità perenne e un lodo
Mostravi di lontano.



Taurina

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